«NOI VENETI NEI FILM ERAVAMO SOLO STORDITI O CAMERIERE INGENUOTTE»
Viene da una famiglia povera e ha cominciato a lavorare da bambino («passavo l’estate nell’officina di mio padre e lui mi pagava»), poi è arrivata la politica. «Da ragazzo ho
organizzato un baccanale in discoteca e ho visto che funzionava, quei soldi mi servivano per l’università»
a lavorato 20 ore al giorno da febbraio a giugno 2020, «senza tregua e sotto stress. Come ho fatto? Ho resistito grazie all’amore per il Veneto». Dorme due o tre ore a notte. E come accade a tutti gli insonni, nel buio si affollano i ricordi. Che hanno preso la forma di un libro, Ragioniamoci sopra (da un tormentone di Crozza, che lo diverte quando lo imita). Editore rigorosamente veneto, Marsilio. Non poteva essere altrimenti, perché per il governatore Luca Zaia, il Veneto è il centro del mondo. Ne parla come la regione del fare, ed è il primo ad aver fatto: meccanico con il padre, manovale, produttore di creme anti dermatiti, istruttore d’equitazione, pr per discoteche, raccoglitore di capi per le lavasecco. Poi politico. «No, amministratore», precisa. Rieletto con quasi il 77% dei voti, domina nello Zaiastan (copyright Massimo Cacciari). Con i “suoi” sindaci comunica in dialetto, sciorinando proverbi (uno sempre buono: Scoa nova, scoa mejo, scopa nuova, scopa meglio). Non ha visto La sposa, la fiction Rai in cui un rozzo veneto “compra” una sposa-schiava in Calabria. «Un fenomeno inesistente nel Veneto», si arrabbia «pura invenzione».
Nessun arrivo di lavoratori dal Sud?
«Qui non c’erano grandi industrie. Il modello è stato il metalmezzadro, l’operaio-contadino. Piccole aziende, 2,5 ettari in media. E poi un formicaio di micro industrie, un’economia diffusa, l’opposto del gelo della grande Torino. I lavoratori del Sud sono arrivati sì, ma negli uffici pubblici, scuole e Poste».
«HO FATTO UN COMIZIO IN BRASILE IN DIALETTO VENETO: LÌ CI SONO TANTISSIMI EMIGRATI, MANGIANO
LA MINESTRA VERSANDOCI IL VINO»
Lei viene da una famiglia di migranti.
«Mio nonno Enrico andò a lavorare in Brasile. C’è stato un grande flusso a fine Ottocento: ci sono più veneti fuori dal Veneto che nel Veneto».
È vero che lei ha tenuto un comizio in Brasile parlando in dialetto?
«C’erano tremila persone. In alcune zone la lingua ufficiale è il talian, il dialetto arcaico. E quando mangiano la minestra ci versano il vino, come mio nonno. Nel Dopoguerra i veneti sono migrati in tutto il mondo, dal Belgio all’Australia».
Suo nonno diceva che dove passavano loro la giungla era bonificata.
«È ancora così, dove non hanno lavorato è rimasta la giungla».
Anche sua madre è migrata per lavoro?
«Mia mamma Carmela è andata a servire, ha fatto la colf e la tata, si direbbe ora».
Come nelle commedie all’italiana degli Anni 60.
«I veneti sono stati a lungo vittime degli stereotipi: nei film erano veneti i carabinieri un po’ storditi e le cameriere ingenuotte. Grandi diffamatori nazionali ci hanno descritto per decenni come abitanti della periferia dell’impero».
Sua madre ha raccontato di aver visto per la prima volta un piatto di carne a 18 anni. Cosa si mangiava a casa?
«Pochi giorni fa, al compleanno degli 80 anni di mio padre, l’abbiamo ricordato. I miei nonni, polenta e latte. Oppure zampe di gallina. Mia sorella ha chiesto: ma con una famiglia così grande quando mangiavate il pollo, quanti polli c’erano a tavola?. E mia mamma: uno».
Quanto era grande la famiglia?
«Mia nonna aveva 11 figli. Sua sorella, che ne aveva 6, morì giovane. E la nonna li adottò tutti».
Cosa si impara da una famiglia così?
«La solidarietà e l’umanità, valori che mi porto dentro».
Valori condivisi nel Veneto degli schei?
«I veneti sono gran lavoratori, gente per bene. Uno su 5 fa volontariato. Siamo primi per donazioni di organi a livello na
«MIA MADRE VIVEVA CON DIECI FRATELLI: IN MEZZO ALLA TAVOLA C’ERA UN SOLO POLLO, CHE DOVEVA BASTARE
PER TUTTI»
zionale. Abbiamo dimostrato ingegno per arrivare all’attuale benessere. Negli Anni 50 eravamo era un popolo di contadini, alfabetizzazione quasi zero. Ora ci sono 600 mila imprese, 180 miliardi di fatturato, anche la più innovativa delle idee qui mette radici».
Ora il Veneto è ricco.
«Tutto il mondo si rifornisce da noi perché siamo bravi nel saper fare. Un grande industriale mi ha raccontato: costruisco macchinari da milioni di euro, ma quando devo montarli mi serve un veneto. Uno che se manca una rondella si guarda in giro e la trova. Dopo lo sdoganamento economico c’è stato quello culturale. C’è una generazione di super laureati con il master».
Le credono quando racconta che in prima elementare facevate i turni per alimentare la stufa a legna?
«Era la normalità. Eravamo poveri, ma ho avuto un’infanzia felicissima. La stufa in classe era una prova d’abilità, lo sportello era rovente, dopo che il primo bambino si è scottato, abbiamo imparato la lezione». Poi ha fatto il chierichetto, per un bambino veneto era quasi obbligatorio?
«Sì, abbiamo profonde radici cattoliche. Il bigottismo non c’entra. La solidarietà e la compassione vengono da questa cultura. I chierichetti erano tanti, riempivano tutto il retro altare. Mi annoiavo, ma ho resistito fino a 14 anni. E distribuivo Famiglia cristiana e giornale parrocchiale. In bici, con un carretto. Che serviva anche per la questua, raccoglievamo salumi e formaggi per i preti».
E il primo lavoro com’è arrivato?
«Da una festa di classe. Ho organizzato un Baccanale in una discoteca. Ho capito che poteva diventare una opportunità. Era un Veneto in cui bastava uno spunto per trovare un lavoro. Ho inventato gli inviti da distribuire sulle spiagge e tra i ragazzi al bar. Il guadagno serviva a pagarmi gli studi. In quel periodo ho conosciuto tante persone che ho ritrovato come avvocati, medici, imprenditori. E tanti personaggi: Amadeus, Fiorello, Albertino…».
Nel libro ha scritto che la laurea è stata il «riscatto sociale di un figlio del popolo».
«Della mia famiglia sono il primo laureato. Lavoravo tutte le estati nell’officina di papà. Conservo ancora l’agendina in cui segnavo le ore: papà era molto rispettoso, mi pagava, certo una cifra simbolica, avevo 8 anni».
Cosa faceva?
«Quando arrivava il medico del paese, pulivo i vetri dell’auto. Siamo stati educati così, ad avere rispetto».
Il medico era la star del paese.
«Come il maestro, il prete e il geometra.
«ABBIAMO PROFONDE RADICI CATTOLICHE, IL BIGOTTISMO NON C’ENTRA. HO FATTO IL CHIERICHETTO FINO A 14 ANNI, MI ANNOIAVO
MA HO RESISTITO»
«Ma dove trovi un posto dove in due ore di auto passi dallo sci sul ghiacciaio della Marmolada ai bagni a Jesolo? Il Veneto è talmente bello che è quasi difficile da credere, per fortuna i turisti lo capiscono: 72 milioni di presenze l’anno».
Ad emergenza finita, dove andrà in ferie?
«Penso di restare nel Veneto. Al massimo stacco una settimana l’anno. Con me la Regione è sempre aperta, anche a Ferragosto. Avevo un cavallo e mi piacevano le escursioni, è morto durante la pandemia. Ma resto ottimista, solo i pessimisti non fanno fortuna. Dopo la pioggia viene il sereno».