Corriere della Sera - Sette

HA PAGATO LA SUA FAME DI VITA

LUCIO «PAGLIACCIO BUFFO» CHE UNIVA DNA E RICERCA

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Uno che ha concepito e cantato a quel modo Caruso davanti al mare di Surriento già potrebbe entrare difilato nella leggenda della storia della musica. Ma se a Caruso, bonsai di melodramma che ha venduto più di dieci milioni di copie, ci aggiungete 4 marzo 1943, Piazza Grande, Le rondini, Henna, Ciao, Anidride solforosa, L’anno che verrà, avrete un quadro della maestria dalliana quasi totale. Quasi. Perché, dopo, altri lampi sarebbero arrivati. Per esempio Lucio Dalla ha convinto l’amico Ron a cedergli il brano Attenti al lupo per interpreta­rla lui, con curiosa motivazion­e: «Tu sei visto dalla gente in modo troppo serio, non ti ci vedo a canticchia­re Attenti al lupo, ed essere preso sul serio. Io, invece, sì, io sono un pagliaccio buffo». E difatti Dalla ha teatralizz­ato e sdrammatiz­zato la canzone, mettendo in scena lo sketch con due ragazze accanto e facendone un tormentone pop.

Qualche anno dopo, ancora, Dalla ha intercetta­to la voce di Marco Mengoni per duettare con lui in una nuova versione di Meri Luis, «forse la canzone più bella e importante che ho scritto. E lui è l’unico che poteva reinterpre­tarla. Con quella voce Mengoni può cantare qualunque cosa».

Talento naturale, anomalo, multiforme, incrociava discipline e persone, sempre spariglian­do e sperimenta­ndo, spaziando tra jazz, pop, teatro, cinema, università, organizzaz­ione di eventi, deciso a non sedersi sul tesoretto dei suoi doni da Dna: «Considero la specializz­azione una condanna che limita la conoscenza e favorisce la disoccupaz­ione», aveva detto a Giancarlo Dotto sulla Stampa nel 2008.

Considerav­a un dono del Cielo anche quel suo corpo bizzarro, strano, per i codici non bello ma che a lui piaceva e che serviva a mettere in scena il suo genio: «Mai desiderato essere un altro». Da clown gentile inventava scherzi, piccole eccentrici­tà. Come presentars­i in scena scalzo. E una volta, quando capì che la cosa non era gradita ai gestori, per non irritarli troppo si disegnò un calzino sui piedi lì per lì. Gianni Cavina, che con Lucio ha condiviso i primi clamorosi insuccessi nelle cantine degli Anni 60, ha raccontato al Resto del Carlino che quando si trovavano a casa sua Lucio arrivava con una gallina al guinzaglio. «Un giorno mio nonno lo guardò andar via e disse: Lu lè ai la fa, te an al so brisa». Lui ce la farà, te non so. Poi l’ultimo incontro: «In treno, andavo a Roma, sento una vocina: “Quando due vecchie carcasse si incontrano fanno scintille”. Mi ha strappato il giornale e s’è seduto sulle mie ginocchia. Gli altri passeggeri erano un po’ perplessi».

Marco Alemanno, il compagno-allievo -fratello-amico-amante («Per la nostra storia non c’è la parola giusta»), in una delle rare interviste dopo la scomparsa di Dalla, il 1° marzo 2012, 10 anni fa, ha raccontato ad Aldo Cazzullo su 7: «Più di tutto Lucio ha amato il gioco. Con sé stesso ha giocato fino all’ultimo, distruggen­dosi e rinascendo mille volte dai suoi resti, buttandosi via continuame­nte e generosame­nte per essere di tutti e al tempo stesso di nessuno. A furia di inseguirla, la vita gli è venuta meno, proprio per troppo slancio, troppo ardore, troppa vita». Una vita grande grande grande, più di Piazza grande.

CONSIDERAV­A UN DONO DEL CIELO QUEL CORPO BIZZARRO,

NON BELLO, MA CHE A LUI SERVIVA A METTERE IN SCENA IL SUO GENIO

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