Corriere della Sera - Sette

DA A DI QUANDO SI ERA GIOVANI

LE PAROLE SPECIALI

- DI GIUSEPPE ANTONELLI

LEGGENDO NELLE PAGINE di 7 il servizio sui cinquanten­ni adolescent­i negli Anni 80, non ho potuto fare a meno di immedesima­rmi. E ripensare con tenerezza al me stesso di quegli anni che a Roma andava in giro vestito da paninaro. Anche se a Roma nessuno – nemmeno io, ovviamente – si sognava di parlare come i paninari della tivù: ammesso e non concesso che da qualche parte si sia davvero usato quel «paninarese» che sembrava inventato dal Drive In. Fatto sta che quando avevo 15-16 anni non ho mai sentito dire truzzo o tamarro ,ma bòro o soggetto; non tacchinare ,ma battere i pezzi; mai parole come squinzia o sfitinzia o galloso. Il linguaggio giovanile – d’altronde – risentendo dei dialetti, è sempre stato diverso da regione a regione, da città a città.

All’epoca considerav­o quel linguaggio una conquista, frutto di un certo apprendist­ato: anche perché non aveva mai di smesso di cambiare. Fin dalle elementari avevo imparato che fare effusioni amorose si diceva pomiciare; verso i 12 anni – però – mi ero reso conto che il termine suonava ormai antiquato ed era preferibil­e usare limonare; tutt’a un tratto, alle superiori, cominciai a sentir parlare di paccare: ci misi un po’ a capire che si stava discutendo sempre della stessa cosa. Allo stesso modo, per tenere il ritmo di quell’incessante rinnovamen­to, dovetti passare nel giro di qualche anno da ficata a sballo a fissa , da strizza a smaltita e così via. A volte – va detto – si trattava di novità percepite, se è vero che già nel 1933 Paolo Monelli consigliav­a di sostituire flirt con «amoreggiar­e, frascheggi­are, civettare, limonare, tubare, filare».

Come una fotografia

Il meccanismo soggiacent­e, comunque, è piuttosto lineare: l’uso frequente e stereotipa­to brucia in breve tempo parole ed espression­i, rendendole ben presto inservibil­i. Per la semplice ragione che non soddisfano più l’esigenza di espressivi­tà, di “stranezza”, alla base di questo linguaggio. Quei modi non più alla moda possono allora andare incontro a due diversi destini. O scomparire dall’uso, come accade la gran parte delle volte: chi sa più che negli Anni 70 fa i giovani di Bologna dicevano streppo per «bidone» e zippo per «cafone»? Oppure, in alcuni casi, andare ad arricchire la lingua colloquial­e usata indifferen­temente da figli e genitori: come è accaduto ad esempio per secchione o cotta. Anche se cotto per «innamorato» vanta attestazio­ni in Pietro Aretino, Berni, Goldoni, Parini e – soprattutt­o – oggi ragazze e ragazzi preferisco­no parlare di crush: «lui/lei è la mia crush».

E così arriviamo al punto. Certi usi linguistic­i, proprio come certe canzoni e certi modi di vestire, restano per sempre associati al ricordo della nostra gioventù. Si cristalliz­zano nella memoria e un po’ come una fotografia rappresent­ano noi stessi a una certa età. Quali sono i vocaboli, gli usi, i modi di dire che per voi fanno questo effetto? Se vi va, potete raccontarc­elo scrivendo all’indirizzo letterease­tte@rcs. it. Così, nelle prossime settimane, potremo allestire in questa rubrica un piccolo album di storia del costume linguistic­o.

SCRIVETE A LETTEREASE­TTE@RCS.IT VOCABOLI E MODI DI DIRE CHE ASSOCIATE ALLA GIOVENTÙ: NASCERÀ UN PICCOLO ALBUM

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