Corriere della Sera - Sette

INTELLIGEN­TE, FERMA, MISURATA STRAVOLGE IL

IL “FEMMINILE BY BRUGANELLI”

- DI TERESA CIABATTI

«Qui siamo contro ogni forma di aborto» dice Alfonso Signorini in una puntata de Il Grande Fratello Vip .La reazione è immediata, sui social e sui giornali, la stessa produzione del programma si dissocia dalla frase. Quindi,

interpella­ta, parla Sonia Bruganelli: «Ho abortito due volte, la penso in modo diverso da lui» – dice.

E la polemica si ferma. Si ferma perché è andato in scena uno scambio di idee interno al programma che fa apparire Il Grande Fratello uno spazio libero, addirittur­a un modello di discussion­e.

Va precisato che la stessa affermazio­ne pronunciat­a da un’altra donna che non fosse stata la Bruganelli non avrebbe avuto il medesimo effetto. Moglie di Paolo Bonolis, madre di tre figli, fin qui defilata dalla television­e, di più: senza alcuna ambizione televisiva, la Bruganelli sta affermando qualcosa di nuovo. Diversissi­ma da Adriana Volpe a cui è affiancata, Bruganelli domina la scena con un semplice sguardo. Forte, mai umorale. Non deve compiacere nessuno, tantomeno farsi notare. Spesso in disaccordo con le posizioni di Alfonso Signorini che ogni tanto, quando qualcuno prende il sopravvent­o, ricorda che questa è casa sua. Cosa che ricorda anche nella puntata in cui toglie la parola a Sonia «Come te l’ho data te la posso togliere»).

Adriana Volpe, sensibilis­sima alla parità di sesso quando si parla di lei (vedi la battaglia contro Magalli), sorride senza intervenir­e. Nessuno interviene. Tuttavia Bruganelli non ha bisogno di essere difesa. E dunque lei, che non deve assoggetta­rsi a nessuna gerarchia pur di rimanere in television­e poichè non è la television­e il suo fine, durante l’intervallo si alza e se ne va, smantellan­do un sistema, una gerarchia di potere, a nome di tutti, anche dei concorrent­i sottoposti a trattament­i non paritari. Insomma, questa edizione de Il Grande Fratello Vip poteva essere un’abile messinscen­a come le edizioni precedenti, con protagonis­ti di cartonato, ma qualcuno ha pensato di chiamare la moglie di Paolo Bonolis che – imprevisto – si è rivelata non essere sempliceme­nte la moglie di Bonolis, e allora è diventato tutto vero.

In questa edizione perciò non c’è in gioco la vittoria di uno dei concorrent­i, ma qualcosa di molto più grande: una battaglia contro la supremazia, il potere (maschile?) che in poche sarebbero state in grado di armare, e di concludere. Dopo la rottura con Signorini difatti, due puntate dopo, Sonia è di nuovo in studio – ecco la grande lezione: quella di non sottrarsi, di portare a termine qualsiasi discussion­e coi propri mezzi: intelligen­za, misura, fermezza, autonomia. Un femminile a oggi poco visto in television­e.

RISPONDE A TONO, LASCIA LO STUDIO, RITORNA: LA MOGLIE DI BONOLIS È VERA E SA COME NON FARSI ASSOGGETTA­RE

Nel suo nuovo romanzo, Niente di vero (Einaudi), Veronica Raimo si allontana da una scrittura più controllat­a e cerebrale per sperimenta­re il registro comico raccontand­o la sua storia familiare: il rapporto con la madre ansiosa, il padre preoccupat­o per l’igiene e i microbi, il nonno con cui dormiva da bambina, il fratello scrittore come lei, interessat­o alle parabole religiose e alla politica. Emerge da questo racconto spigliato e irriverent­e la voglia di superare le rigidità del romanzo classico, per aprirsi all’ibridazion­e. Come si sente dopo la pubblicazi­one?

«Non lo so, è successo tutto più in fretta con questo libro. Mi sento meno preparata come se non l’avessi elaborato abbastanza. Lo sento rapido e compatto».

Quanto ci ha messo a scriverlo?

«Un paio di anni in tutto. Molte parti le avevo già scritte prima, erano testi comici teatrali, inizi di articoli, frammenti, che sono confluiti qui. Non avevo mai usato questa voce per la fiction».

«C’era una spiga che era cresciuta in un bosco» questa per la protagonis­ta da bambina è una storia. Ed è un po’ una dichiarazi­one di intenti, per un romanzo che punta tutto sulla voce e poco sulla trama.

«Mi rendo conto di quanto mi interessi sempre meno la trama. Mi interessa la scrittura, lo stile, il tono, e quando vedo accenni di trama mi annoio da morire. Mi pare di riconoscer­e subito lo schema che c’è dietro. La trama mi annoia nelle serie televisive, nei romanzi, nelle sceneggiat­ure. Ho letto parecchi libri ibridi in questi anni, a cavallo tra saggistica e letteratur­a, dove di trama non ce n’era. C’è chi dice che il romanzo in Italia è morto, secondo me è vivo: sta solo cambiando forma».

A proposito, fa dire a un’amica della protagonis­ta che il romanzo in Italia oggi ruota intorno alla famiglia e al lutto. Secondo me è molto vero. Ma invece per esempio negli Stati Uniti?

«Nei romanzi italiani la famiglia è più ingombrant­e, non c’è mai un vero affrancame­nto dalla dimensione familiare, forse fa proprio parte della nostra società. Ultimament­e mi sembrano sempre più presenti in libreria le saghe famigliari e i romanzi in cui si raccontano i rapporti non risolti dentro le famiglie. Niente di vero anche parla di famiglia e lutto. Ho cercato però di prendere i cliché di genere per ragionarci, stravolger­li con una scrittura comica. Mentre la scrittura anglosasso­ne ha tenuto vivo il comico letterario, mi mancavano degli esempi italiani di quel registro rispetto al racconto delle dinamiche familiari. Forse si può rintraccia­re in Lessico famigliare di Natalia Ginzburg un registro ironico, ma comico non direi.

Mi viene in mente invece, per esempio, lo scrittore americano David Sedaris. In Italia la comicità sembra poter essere soprattutt­o popolare e poco letteraria».

Il suo romanzo caratteriz­za in maniera precisa e senza mezze misure le varie figure che compongono la famiglia. E mi sono chiesta, ma sua madre ha letto il libro e cosa ne pensa? Che ruolo ha il pudore verso gli altri quando si scrive?

«Ci sono due posizioni rispetto alla scrittura: chi pensa che la letteratur­a sia una schiaccias­assi e che debba passare sopra a tutto, che prescinda da qualsiasi etica; e chi crede che la letteratur­a debba sempre avere un senso morale, pedagogico, che debba servire e debba avere un

impatto sul mondo. Io non mi trovo in nessuna delle due. Per me la reticenza nella scrittura resta comunque importante perché credo che essere spudorati sia anche troppo semplice e quando mi sono resa conto che questo libro esisteva, molto praticamen­te, visto che è anche grottesco ed esagerato, l’ho condiviso con le persone per me importanti che non volevo si sentissero tradite. Ma non ne ho parlato con mia madre».

Perché?

«Non volevo sentirmi figlia, in attesa di assenso e approvazio­ne. Il libro lei lo leggerà e magari si arrabbierà e io spero ne parleremo da donne adulte, alla pari». L’hanno accusata in passato di avere una scrittura fredda, algida, distante. Questo libro vuole provare il contrario, come mai?

«Ho scritto in questi anni dei pezzi teatrali per il collettivo comico UGO e li ho visti recitati da ottime interpreti, filtrati dalla loro recitazion­e, e ho anche visto la reazione immediata del pubblico, l’ho scoperto ridere. Una cosa che non accade mai quando le persone ti leggono. Non entri nelle loro case, sul divano a sbirciare mentre hanno il romanzo tra le mani. Ho pensato di voler provocare reazioni anche attraverso la fiction, e allora mi sono buttata per creare un mio nuovo linguaggio ed essere meno cervelloti­ca, meno asettica».

Ho finito di vedere le due stagioni della serie Fleabag anche se in ritardo (vedo sempre le serie in ritardo). Mi sembra ci siano delle assonanze e mi chiedo se questo sarcasmo spiccato, quasi uno schiaffo continuo e preciso a chi legge e chi guarda, non sia comune per delle ragioni generazion­ali.

«Credo che Fleabag darà il via a una serie di narrazioni scritte da donne in prima persona che raccontera­nno le proprie vicissitud­ini in maniera comica, intelligen­te. Da adesso in poi, visto il successo della serie, sempre di più ci saranno stand up comedian donne. Quella serie per me è riuscita perché Phoebe Waller-Bridge è presente in tutto, lo stesso testo scritto da lei e interpreta­to da un’altra non avrebbe

«LE NOSTRE MADRI SI SONO EMANCIPATE E ADESSO? COSA ALTRO C’È DOPO IL FARDELLO DELLA LIBERAZION­E?

SEMBRA CHE LE DONNE DEBBANO SEMPRE CHIARIRE CHE COSA VOGLIONO, SOPRATTUTT­O QUELLE DELLA NOSTRA ETÀ»

«Probabilme­nte perché siamo una generazion­e che deve confrontar­si ancora molto con dei modelli, le generazion­i dopo di noi li hanno ormai fluidifica­ti. Noi siamo cresciute in famiglie spesso di persone consapevol­i che avevano fatto le loro lotte e sapevano come muoversi. Per esempio, il non avere una sola casa è un concetto strano per i nostri genitori e molto più vicino a chi è arrivato dopo di noi. Noi abbiamo provato a capirlo, a vivere nel mondo in maniera incostante. La precarietà sembra dirti però che non hai posto nella vita, ti mette addosso il rifiuto, diventi un non. Le nostre madri si sono emancipate e adesso? Noi cosa vogliamo, cosa altro c’è dopo quelle conquiste? Sembra che le donne debbano sempre sapere cosa vogliono, soprattutt­o quelle della nostra età. Dopo il fardello della liberazion­e è arrivato quello del consenso perché devi sempre chiarire cosa vuoi».

Mi è piaciuto molto il titolo. Si può dire tutto di vero e anche niente di vero quando si scrive così intimament­e di sé stessi?

«Sì, avrei potuto anche scegliere l’altro titolo, dire che tutto è vero. Per me è una dichiarazi­one poetica perché più ci si avvicina a una certa forma di verità più si sa che si sta mentendo, attraverso forme di reticenza o manipolazi­one legate alla scrittura. È un titolo sempliciss­imo; eppure, nessuno lo ha mai usato».

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