Cosa si mangia nelle Marche
Dal mare alla collina alla montagna e ritorno. Bastano poche ore per afferrare le sfumature, i sapori e il carattere della «nuova Toscana». Emozioni, indirizzi, incontri dagli appunti di
Quaderno di viaggio a colori
Se un pittore dovesse riassumere le Marche sulla sua tavolozza le farebbe a strisce. Azzurra la striscia del mare, grigia quella della pietra e della sabbia, verde quella della campagna. Noi su quella tavolozza abbiamo disegnato per voi un triangolo tra costa e collina, montagna e città. Da percorrere a piacere in tre giorni o in tre ore.
AZZURRO
Porto di Fano, molo di Ponente, settembre. Tempo incerto con sprazzi di sole. Mare con onde pigre. Elisa Palazzi, unica comandante di vongolara della costa adriatica, a bordo della sua Barbara P. ereditata dal padre Paolo, sta controllando il pescato messo da parte. Le abbiamo chiesto di cucinare a bordo, come si fa spesso, ma questa volta per noi, un autentico brodetto fanese, quello che, insieme al sambenedettese (e, per la verità, alle altre quattro versioni, cioè l’anconetana e quelle di Civitanova Marche, di Porto San Giorgio, di Porto Recanati), reclama la primogenitura. Una diatriba tuttora vivacissima tra i «portolotti», i lavoratori portuali, davanti a shottini di Moretta, la corroborante miscela di caffè, liquore all’anice, rum e brandy in tre strati ben distinti, aromatizzata con una scorzetta di limone. Nata per combattere il freddo e il sonno delle notti di pesca, ma gagliarda anche a terra.
C’è chi sostiene che il vero brodetto esige sette tipi di pesce e solo quelli, e c’è chi sostiene che lo si è sempre fatto con il pescato di paranza un po’ acciaccato restato nella rete. C’è chi usa pomodori acerbi (San Benedetto), chi maturi (Civitanova Marche), e chi usa la conserva (Porto San Giorgio). A Fano, dove a luglio si celebra il Festival del Brodetto, quest’anno sono state aperte le porte anche al Cacciucco livornese e a una gara tra le zuppe di pesce di Italia, Spagna e Albania. La nostra
cuoca d’eccezione, della gran famiglia che occupa i fondali ha scelto sogliole, razza, triglie, canocchie (più qualche scampo «ma solo per questa occasione»). Su un soffritto di cipolla sistema prima il pesce che deve cuocere più a lungo («non si mescola, mi raccomando!»), poi a mano a mano gli altri. Aggiunge passata e concentrato di pomodoro, sale e pepe. Per un brodetto con gli stessi sapori, quelli «che sanno» vanno alla Trattoria da Maria, dove l’espressione «fatto su ordinazione» ne garantisce la fragranza. Naturalmente esistono interpretazioni raffinate di brodetto. I pesci arrivano spinati, col fondo aggiunto a parte. Vantaggio: ogni boccone è al punto di cottura ideale. Svantaggio: non c’è divertimento.
Per divertirsi davvero bisogna andare a trovare Moreno Cedroni, il cuoco che detiene i segreti di tutte le sfumature dell’azzurro dei pesci, lui stesso con occhi azzurrissimi. Se vi piace pranzare o cenare con il sottofondo delle onde, la vostra meta è il Clandestino Susci Bar a Portonovo, appoggiato sulla spiaggia. Quest’anno il tema della cucina è Il Mediterraneo. Si comincia, per esempio, con il lecca-lecca di gin tonic al pino «Gino e Pino»; si continua con «Soffio di mare» e «Soffio di terra», spinosini (un formato di pasta) al granchio con carote e tarassaco; si prosegue fino al «Baccalà Filosofale» in salsa di peperoni, e granella di capperi. Se cercate invece eleganza e sperimentazione cedroniana a due stelle, dirigetevi verso la Madonnina del
«E la collina marchigiana, volgendosi verso l’interno, è quasi un grande e naturale giardino all’italiana… È il prototipo del paesaggio idillico pastorale» da Viaggio in Italia di Guido Piovene
Pescatore a Senigallia, la «casa», che compie adesso trentacinque anni. Io ho cominciato col «Cannolicchio e margarita», sono passata alla «Ricciola, salsa di porro e lemongrass, viola del pensiero, amaranto fritto»; non ho mancato il «Risotto, ostrica, alghe e panna acida», né il «San Pietro alla mugnaia con carota rossa fermentata». Assicuro il divertimento.
VERDE
Dieci del mattino, frazione di Gallignano, contrada Monte Galluzzo. Neanche una casa in vista. I settanta bovi marchigiani di Stefano Giorgi riposano ai margini del bosco o mangiucchiano erbe. A settembre vivono ancora all’aperto, in rapporti amichevoli con istrici e daini. Bianchi e regali, da un incrocio tra la razza chianina e la romagnola, pesano mezza tonnellata, e una loro bistecca si aggira sui tre chili. La carne è rossa, succulenta, col profumo dei prati di collina. Stefano Giorgi ha ereditato il podere da suo padre e la scelta di studiare Agraria, negli anni Novanta, «era sfidante». Adesso è uno dei quattrocento piccoli allevatori associati in Bovinmarche, la cooperativa che ha trasformato la debolezza dei piccoli numeri in un punto di forza, certificando le carni prodotte in base a un disciplinare che garantisce animali antibiotic free, senza ogm, allevati con cura. E il terreno, tenuto a pascolo, non viene lasciato inselvatichire. Viene voglia di dire: vengo anch’io. Ma Elena, la moglie di Giorgi, avverte che avere nel cuore il ritorno alla sostenibilità è bello, «poi però bisogna fare i conti con un lavoro duro e poco remunerativo, soggetto al clima e all’accudimento continuo degli animali».
Fin qui il verde è bucolico, da passeggiata per funghi e tartufi. Ma poi l’Appennino sale fino ai 1500 metri del Monte Nerone, scabro, selvaggio, e ci si chiede di che cosa viva la gente da queste parti. La risposta è curiosa: qui si fanno alcune tra le migliori birre artigianali d’Italia grazie ad acque di sorgente purissime e alla coltivazione dell’orzo. I 1800 abitanti di Apecchio, battezzata Città della Birra, si sono inventati il neologismo «alogastronomia», per definire il loro Festival. E non manca il risvolto high tech della sala sensoriale creata dal produttore Giuseppe Collesi, con cabine aromatiche che riproducono i profumi delle diverse birre.
Poi scendete al mare, a Torre di Palme, una frazione di Fermo, iperconnessa quanto a vie di comunicazione ma senza la connessione Wifi. Un vantaggio, dice
«Bon ton del brodetto: ci si mette al collo il tovagliolo; si succhia la polpa dai gusci aiutandosi con le mani; si fa la scarpetta col pane. Al termine si torna alla civiltà nettando le mani con un tovagliolo umido»
Patrizia Corradetti che attribuisce il successo del suo bed & breakfast Lu Focarò anche a questo aspetto detox. Otto stanze ricavate da un’antica torre di avvistamento, un salotto, il cane Holly, la cucina che piace a lei. Quindici anni fa un top manager di Tod’s, scoraggiato dall’offerta anonima dei dintorni, si è rifugiato da lei. Da quel momento Lu Focarò è diventato l’indirizzo di riferimento per gli industriali della moda che fanno tappa in questa zona. Coniglio in tegame col finocchietto selvatico, caponata in agrodolce, uovo fritto sulla pappa al pomodoro, tortelloni con la ricotta, e un trionfo di costate di Scottona, di maiale, di salsiccia. Per il pesce, che a lei non garba di cucinare, manda tutti da Aurelio al ristorante Damiani & Rossi a Porto San Giorgio «che non ha rivali».
GRIGIO
Mezzogiorno. Fermo. Piazza del Popolo. Ci siamo posteggiati alla Enoteca Bar a Vino con Vissia Lucarelli, la nostra guida. Intanto che spalmiamo il ciauscolo su grosse fette di pane, Vissia cita altri posti di fiducia: Il Quartino («pochi tavoli, menu in base al mercato del giorno»), Il Ristorante Emilio («verace»). E per comprare il ciauscolo, il salume-vedetta marchigiano, morbido come un pâté? «Ciriaci», garantisce. La piazza è magnifica, dipinta dal grigio pallido della pietra d’Istria dei palazzi.
Ma noi abbiamo fretta di scendere nel gran mistero delle Cisterne romane, trenta stanze sotterranee su tre file parallele, con volte a botte, aperte al pubblico solo dal 1960, dove i Romani dell’epoca augustea raccoglievano l’acqua piovana per distribuirla alle fontane cittadine. Un labirinto magico e da spavento, debolmente illuminato, dove adesso si fa anche team building aziendale a tema: trovate l’uscita (ci sono guide al soccorso). Tornati alla luce del sole è tutto un passare accanto alle trenta chiese che costellano il centro storico, fino al Palazzo dei Priori. Dentro, la meraviglia della Sala del Mappamondo (creato nel 1713 dall’abate e cartografo Amanzio Moroncelli), oggi una sorta di venerabile riassunto storico, tappezzata da sedicimila volumi. Fuori, il panorama dei Monti Sibillini, che Leopardi chiamava «monti azzurri», ma che sono in realtà della stessa roccia grigio pallido che scende al mare e prosegue nelle sfumature della sabbia. Lungo il litorale, quelli del posto setacciano la battigia in cerca di bomboli, telline, lumachine.
Pesca minore, che diventa straordinaria quando finisce nelle mani di Mauro Uliassi, che univa carne e pesce nel piatto molto prima che diventasse cucina d’avanguardia. «Da noi è sempre stato così perché le donne si trovavano in mano, nello stesso giorno, un colombaccio e una retina di vongole, una lepre e un’anguilla». Vero, e i vecchi libri di cucina marchigiana lo testimoniano, ma continua a fare effetto. Leggendo «Bollito di mare e orecchio di maiale», o «Pasta e lardo di polpo», o «Tartare di lepre, ricci di mare e olio al ginepro» la sedentarietà dei palati normali è scossa. Poi assaggi: il sapore non somiglia a niente di assaggiato prima. Potente e armonico. Sicché sei pronto a lanciarti nei «Gobbetti (piccoli gamberi), prezzemolo, cicoria e lumache», altro incontro terra-mare. Oppure a concederti pause classiche, come il «Colombaccio alla Marchigiana» o la «Rana pescatrice in potacchio alla moda dei contadini di Senigallia». Mauro passa tra i tavoli: prima, durante e a fine pranzo, perché gli piace il contatto diretto coi clienti. Lo gasa, lo motiva. L’arrivo delle tre stelle ha prodotto su di lui l’effetto contrario a quello che succede ai più: no alla televisione, no alle aperture planetarie. Sì alla concentrazione, ogni giorno, ai suoi fuochi. Se oltre alla cucina volete capire il temperamento marchigiano, è lì che dovete andare.