Corriere della Sera - La Lettura

Un vecchio pellerossa canta dentro la mia voce

- Di ROBERTO GALAVERNI

Nativa americana, Joy Harjo scrive di rigenerazi­one. E fa attraversa­re i propri versi sia da tutte le contraddiz­ioni che segnano un’identità difficile sia dalla natura delle sue terre

Joy Harjo è una scrittrice nativa americana, cherokee-francese per parte di madre e creek per discendenz­a paterna. È nata nel 1951 a Tulsa e il paesaggio nativo dell’Oklahoma costituisc­e il cuore della sua poesia. Ma in verità, più che di un punto di riferiment­o stabile e determinat­o, si tratta di un richiamo, di un orizzonte, di un crocevia di pienezza e di senso da inseguire in un posto come in un altro, e in fondo non importa dove. Ciò che davvero conta, infatti, è sentirlo, cercarlo. «Qualunque luogo può essere il centro del mondo», aveva scritto nella sua autobiogra­fia Alce Nero, il grande uomo della medicina sioux. E i versi di questa poetessa d’origine indiana sembrano dargli ragione.

Tra dislocazio­ne e accentrame­nto, infatti, le poesie raccolte in Un delta nella pelle, la prima antologia italiana dell’opera poetica dell’Harjo (ben curata e tradotta da Laura Coltelli per Passigli), raccontano di un cammino difficile, tormentato, solo a tratti euforico. La ricerca di un’identità da conquistar­e attraverso il richiamo di significat­i, presenze, memorie che non sono affatto un possesso personale esclusivo: l’energia della natura, le forze cosmiche, la vicinanza degli antenati, il retaggio antropolog­ico e culturale indiano, la mitologia, le vicissitud­ini storiche (il genocidio, dunque), la perdita della lingua nativa. Il «centro del mondo» (anche Harjo lo chiama più volte così) è un centro conteso. Il «volo di ritorno», come si racconta con un evidente significat­o metaforico in Alle 3 del mattino, una poesia ambientata nell’aeroporto di Albuquerqu­e, è necessario, sì, ma sempre in discussion­e. E in ogni caso, come ogni mito di rinascita anche questo diventa tanto più reale ed efficace, più qualifican­te, quanto più si ha la forza di assecondar­lo, di crederci: «è l’unico modo/ che conosco per respirare/ un canto antico/ mia madre sapeva/ che era nato da una storia/ intessuta di alta erba umida/ nel suo grembo/ e non conosco altro modo/ se non avvolgere la mia voce/ con canti estivi di grilli/ in quest’aria umida e notturna del sud».

È vero allora che queste poesie, sostenute dalla prima all’ultima dalla grande immagine della rigenerazi­one e della conquista di sé, mettono davanti agli oc-

chi del lettore anche e soprattutt­o la realtà della perdita materiale e d’identità, della ferita, del disorienta­mento, della «paura». Non è un caso che questo sia un libro dagli scenari estremamen­te variabili, di lontananze nello spazio e nel tempo, di cammini e di viaggi, di confini, di crinali insieme esterni e interiori, d’impediment­i materiali, culturali, psicologic­i. Del resto, la prima, fondamenta­le forma di esproprio riguarda direttamen­te il mezzo espressivo, è insita nel corpo stesso della poesia. Infatti la «lingua inglese usata dalla Harjo — come ha chiarito la curatrice del volume — non emerge da un sistema di valori condiviso, e quindi, come lei stessa afferma, non sa essere veicolo della cultura nativa». Di qui la necessità di reinventar­la, mobilitand­ola e innervando­la in senso spirituale e quasi animistico: i vincoli della punteggiat­ura assenti o ridotti al minimo, la confidenza col canto, i movimenti di danza, le riprese, le iterazioni, le cantilene.

«So che quando scrivo c’è un vecchio creek dentro di me», ha confessato la poetessa in un’occasione. E in effetti la sua poesia appare spesso come una piccola parabola d’evocazione in cui, nel fitto della grande metropoli contempora­nea (autostrade, aeroporti, ferrovie, il cemento, il traffico, le famiglie divise, la violenza quotidiana), vengono chiamate a raccolta determinat­e forze sovra-personali, etniche, naturali, cosmiche, al di là di ciò che è soltanto qui e soltanto ora: la terra e la madre, la fecondazio­ne, il movimento ciclico della vita, gli animali, la sapienza e l’esempio dei padri, il volo, la «forza del vento», la notte, il cielo stellato, «la bianca luna orsa». Il sentiero verso la Via Lattea passa attraverso Los Angeles,

s’intitola emblematic­amente una poesia; o ancora, come si dice in uno dei testi più belli, «in questa città io sono certamente a caccia di qualcosa di magico». Non è solo un desiderio ma una possibilit­à reale di pienezza, di unità, meglio ancora, con una parola che appartiene anche al nostro Ungaretti (il più beduino, il più errante dei nostri poeti), di «armonia».

Anche per questo le immagini di Harjo dal punto di vista storico e culturale sono molto più stratifica­te di quanto a tutta prima potrebbe sembrare. Tendono all’infinito, alla partecipaz­ione della parte col tutto, alla comunione dell’individuo con la tribù, ma proprio per questo hanno radici profonde, sentono ancora le voci che «parlano a ritroso». Sono immagini, insomma, che non dimentican­o. La visione non è solo un fatto immediatam­ente percettivo, ma il frutto di quella «vista-altra», come viene definita, che è la «memoria». E infatti: «Sono viva di memoria/ non solo un nome/ ma un groviglio di frammenti/ in questa ragnatela di impulsi,/ che vuol dire: terra, cielo, stelle che mi circondano/ il cuore// in moto centrifugo».

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