ll lettore in redazione
Rilettura della ricetta preferita di Giuseppe Verdi. Ai fuochi Davide Livermore, il regista dell’Attila, l’opera che aprirà la stagione del Teatro alla Scala
Un risotto alla ribalta. Davide Livermore
Il re s’avanza, Wodan lo cinge di sua possanza». Così mi appare Davide Livermore, come Attila nel prologo del libretto dell’opera verdiana. Travolgente e risoluto, mentre, con il cucchiaio di legno in mano, mi descrive le immagini apocalittiche dipinte da Giuseppe Verdi nell’opera che lui porterà in scena per la prima di tutte le prime, il 7 dicembre al Teatro alla Scala a Milano.
Torinese, allievo di Carlo Majer (che fu direttore artistico del Teatro Regio di Torino e del San Carlo di Napoli), è un uomo vulcanico, cultore delle radici familiari, anche toscane e inglesi, profondo conoscitore dell’ippica e del valore della competizione sportiva. Il suo profilo è difficile da tracciare perché ha girato i teatri di tutto il mondo e sperimentato quasi ogni arte: scenografo, ballerino, cantante, sceneggiatore, costumista, attore, regista d’opera e anche scrittore (è appena uscito 1791. Mozart e il violino di Lucifero, thriller musicale scritto con Rosa Mogliasso e pubblicato da Salani Editore). Una cosa però posso affermarla con certezza, è un gran narrator-fascinatore.
Ama da sempre la cucina e le sfide e ha accettato il nostro invito con slancio. Mentre trita il prezzemolo mi racconta di quando, bambino, andava nel pollaio della casa di campagna a raccogliere le uova. A otto anni, per dimostrare di esserne capace mangiò, uno dopo l’altro, undici uova crude: «Prendi un chiodo, fai un buco sopra, fai un buco sotto, lo mangi e avanti un altro» (detiene tuttora il record familiare). Mima con enfasi il gesto del chiodo sul guscio delle uova, poi riprende a cucinare.
Per prima cosa prepara i carciofi dritti alla Lando (il suo papà) da usare al posto degli asparagi, previsti invece nella ricetta codificata e dedicata a Giuseppe Verdi da Henri-Paul Pellaprat, allievo di Auguste Escoffier. Ricorda che a casa sua c’erano gli uomini ai fornelli e che una volta, ospite da un amico, chiese, con il massimo candore: «Ma tua mamma cucina? La mia è bravissima nel bricolage».
Quando torna a casa, Davide Livermore si dedica con trasporto alla gastronomia, e si vede che è a suo agio tra coltelli e padelle. «Cucinare è un momento di svago, l’unico in cui posso spengere tutti i pensieri e riposare la mente». La sua passione segreta (un’altra sfida), però, è «resuscitare frigoriferi che sono sarcofaghi», riuscendo a imbandire una cena con i pochi ingredienti che ha a disposizione. ➝
«Cucinare è un atto di amore vero. Ha a che fare con il brillio degli occhi e dell’anima e lo sfarfallare del cuore»
Lo stesso approccio lo usa, dal 2012, nella direzione artistica del Baretti di Torino, un teatro parrocchiale che, per volontà del Don, «parrocchiale» non doveva esserlo per niente. Così, con mezzi ai minimi termini e molta sperimentazione, ha ottenuto grandissimi risultati.
Qualche segreto sulla prima scaligera? Mentre bagna il risotto, mi svela che le riprese televisive saranno diverse dal solito, grazie a una sinergia tra la sua regia e quella della Rai: più di una macchina da presa sarà inserita nella scenografia così da restituire nella diretta in mondovisione ogni sfumatura dell’opera. Per riscoprire il valore del lavoro minuto e al tempo stesso colossale che c’è dietro uno dei tanti capolavori della nostra cultura.
Il risotto è pronto, ma prima di assaggiarlo insieme vorrei sapere che cosa mangia prima della prima: «Nei miei sogni migliori cinque ostriche con una goccia di Tabasco, ma spesso la realtà è diversa...». E dopo? «Un bicchiere di vodka». Buio in sala, su il sipario.