A cura di Alessandro Gnocchi, testo di Alberto Capatti (storico della cucina), ricette di Alessandra Avallone, foto di Stefania Giorgi, styling di Sara Farina
ALBERTO CAPATTI
Storico della cucina, è stato rettore dell’università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Cuneo). Ha curato l’edizione commentata de “La scienza in cucina” di Artusi. Tra le sue opere, “Storia della cucina Italiana” (Tommasi Editore).
Nella parola Carnevale, la festa familiare e sociale che il Cristianesimo aveva recepito dall'antichità pagana, domina il tema della "carne". La nuova religione, iscrivendo nel calendario questi giorni, dava ai credenti la libertà, senza peccato, di imbandire mense sontuose e vestirsi e travestirsi. Così, senza soluzione di continuità tra paganesimo ed era Cristiana, a misura che durante l'anno ci si avvicinava al fatidico momento, l’appetito cresceva, e la festa pure, con i suoi eccessi: una voglia che paesi e città, a nord e a sud, interpretavano a loro modo, con quello che la terra, il mercato, l’usanza offrivano.
Nella civiltà contadina, il Carnevale veniva assai dopo l’uccisione del porco, rituale che portava una temporanea abbondanza, l'inverno era povero di vegetali freschi, sostituiti dai legumi secchi; per divertirsi bisognava dunque attingere alle riserve accumulate durante l'anno. Nelle città, invece, piccoli e grandi borghesi avevano spazio, tempo e cibo per godersela. Un esempio classico è quello del Berlingaccio, il giovedì grasso fiorentino, la cui tavola viene così descritta da Pellegrino Artusi: pappardelle alla lepre, sformato di pollo e vitello, zampone di Modena o salama da sugo di Ferrara e un bel cappone tartufato.
Questo menu, inserito ne "La scienza in cucina", colloca il Carnevale come la terza festa dopo il Capodanno e la Befana, due pranzi in cui è onnipresente la cacciagione.